Vincitori della sezione Racconto di Punto d’inchiostro

1^ CLASSIFICAT*

Parole dentro

di Deborah Foss

Angolo di muro
Ti tocco e sei duro
Dondolo un po’
Spostarti non so
Ho capito di essere io il giorno in cui iniziai l’asilo. La maestra mi prese per mano e mi
presentò con un discorso agli altri bambini seduti immobili. Le sue ciabatte sembravano
quelle delle infermiere in ospedale.
Non mi piaceva stare all’asilo, gli angoli dei muri puzzavano di pastasciutta e quando
dondolavo le parole che sbattevano in testa erano appuntite e rugose.
Anni d’asilo
In voi mi ci infilo
Ma esco distrutto
Da questo debutto
La scuola primaria era grande e avevo un’aula tutta per me. Il maestro indossava un
cappotto lungo lungo. Non mi chiamava quando stavo nell’angolo, ma mi leggeva storie di
strade che non portavano in nessun posto, di palazzi di gelato, di bambine dai capelli verdi.
Le parole mi entravano in testa e giocavano a ping pong. Le sentivo anche di notte, mentre
cenavo, mentre guardavo i piedi del papà sul tavolino.
Sento il sapore
Ma non sento il rumore
Di parole imparate
Mai pronunciate
Un giorno il maestro mi regalò un libro. Era pieno di figure e se ne indicavo una con il dito,
gli altri capivano cosa volevo: bere, dormire, andare via. Mi piaceva tenerlo aperto in mano
mentre dondolavo nell’angolo di muro, non solo perché l’odore di plastica delle pagine
cancellava quello di muffa, ma anche per i misteriosi segni neri sopra le figure.
Siete bestioline, per caso?
Sarei pronto al travaso
Non fossi costretto
In questo difetto

Iniziai a indicare con insistenza quei bastoncini, ci passavo sopra il dito ma non succedeva
niente. Il maestro capì che volevo, che potevo usarli. A, B, C e avanti. All’improvviso
composi parole e, dopo le parole, brevi filastrocche che scrivevo con i pastelli su fogli rubati
qua e là. Una volta presi il rotolo della carta da forno alla mamma. Le sue pantofole di
spugna mi rincorsero per tutta la casa, ma poi si fermarono e tornarono indietro.
Parole, siete qui
Meraviglioso abbiccì
Ma perché non uscite
Dalle mie labbra cucite?
Il maestro mi insegnò tutto quello che potevo imparare. Mi teneva la mano mentre scrivevo
e mi sussurrava storie nelle orecchie, senza leggere. Non mi ricordo cosa raccontavano, ma
c’erano sempre bambini che volavano, uno appeso a un’oca selvatica, un altro su un tappeto
magico, un altro in groppa a un Drago della Fortuna. Quando non avevo più voglia di
scrivere, dondolavo nell’angolo e chiudevo gli occhi. Intorno a me solo cielo e vento.
Voglio sparire
Lontano fuggire
Lasciare il tormento
Del mio movimento
La scuola finì e il maestro se ne andò. “Continua a scrivere le tue rime,” mi disse mentre
piangevo dondolando contro il muro, “ti aiuteranno a stare bene.” Gli indicai la mia bocca e
poi la figura della faccia col fumetto vicino. “No, mi dispiace.” E si mise a oscillare con me
in quell’angolo che ora sapeva solo dei suoi piedi nudi nei sandali di pelle.
Di nuovo da solo
Dimentico il volo
Il silenzio mi circonda
E spietato mi affonda.
La mamma e il papà mi hanno comperato fogli e matite colorati. Ora che non vado più a
scuola, sono loro che mi leggono le storie, ma non hanno la voce di caramella alla menta
che aveva il maestro. Provano a farmi uscire dal mio angolo, ma io resto qui. Ho scelto
quello tra il mio letto e l’armadio, perché odora di me. Ci ho messo tutti i colori, i fogli e
anche il libro con le figure e le lettere. Quando dondolo le parole salgono in superficie e le
metto nei miei versi prima che sguscino via. Poi trasformo i fogli in tanti aeroplanini e li
faccio volare.

Versi piegati
Nell’aria lanciati
Troppo breve tragitto
Per non esserne afflitto
Un aeroplanino, ieri, è finito nella boccia del pesce rosso. Ho avvicinato gli occhi al vaso e
il pesce mi ha guardato aprendo e chiudendo la bocca. Sono uscite delle bolle: erano i
fumetti sul libro delle figure, le parole all’amo nelle mie filastrocche. La faccia appiccicata
al vetro, ero io il pesce: solo e muto a nuotare nell’angolo asciutto della mia scatola chiusa.

2^ CLASSIFICAT*

Vento dentro

di Isabella Siciliano

Era un piccolo vento di montagna. Uno di quei venti di favonio abituati ad arrivare
all’improvviso a spazzare la valle. Rotolava tra i massi e lungo le pietraie, strusciava tra i
larici e gli abeti, facendoli cantare.
Arrivava sferzando a strofinarsi tra le foglie dei faggi, piegandone i rami. Urlando tra le
fronde.
Giunto alle case, a fondo valle, si divertiva a sbattere forte le persiane, rovesciare le sedie
da giardino, ribaltare vasi e financo sfondare le finestre mal costruite, per sprezzo.
Talvolta vedeva le nubi diritto davanti a lui: bianche come la neve appena caduta sulle
cime o scure come il sottobosco più fitto quando sciolte le nevi.
Queste correvano veloci avanti a lui o in alto, ben al di sopra.
Voleva uscire dalla valle. Andare fuori e inseguirle fino al mare. O salire, su, su e farle
rotolare come ad attraversarle a pugno teso. Voleva arrivare ad annusarle ed assorbirle.
Ma ogni volta che provava, che spingeva un po’ più in là, si esauriva. Si sgretolava,
sveniva miseramente.
Scompariva per chissà quanto, senza coscienza, per poi ricomporsi e ritrovarsi a
compattarsi e prendere potenza correndo lungo le cime.
Dove le pareti sono ancora dolci, ma prima di sciogliersi nella pianura, sul fianco della
montagna, c’era la casetta di una donna.
Era una donna né giovane né vecchia. Anche lei, come il vento, guardava le nuvole farsi e
disfarsi, anelando di seguirle.
Ma la vita umana non è vita di vento: scorre più placida, come un fiume stanco che deve
gettarsi in mare.
E sul finire non è estinguersi e ritrovarsi a ruzzolare sui pendii, ma decomporsi e ritrovarsi
dispersi in miriadi di frammenti, nell’humus, nei tronchi, nelle mele e nelle stelle.
Era, dicevo, né giovane né vecchia. Non alta e non troppo bassa. Estremamente media.
Quando arrivava il vento, ritirava diligentemente il tavolo e le sedie del cortile, chiudeva le
ante.
Poi faceva qualcosa che il vento vedeva di rado: usciva ad attenderlo e si piazzava diritta,
il volto al cielo, il petto aperto.
Aspettava che lui arrivasse a tirarle i capelli per stare lì a respirare forte.
Inspirava come a volerlo risucchiare dentro di sé. Espirava come a voler mandare un
pezzo della sua anima in giro con lui, ad inseguire le nuvole, fuori.
Non si era mai arrabbiata con lui, nemmeno quando aveva, rabbioso, ribaltato la serra dei
pomodori o quando, frustrato, aveva abbattuto il piccolo gelso.
Lui non capiva il suo amore per il turbinare di aria. La gente solitamente lo rifuggiva, si
innervosiva, lo attraversava frettolosamente a testa bassa, cappelli trattenuti da una mano
e ben calcati, lo sguardo chino.
Lei non lo sapeva, ma lo guardava dritto attraverso e lo invitava dentro.
Fu così che un mattino lui decise di lasciarle un pezzo di sé.
Entrò nel naso, turbinò nei turbinati, attraversò i bronchi e dopo averli riempiti si agganciò
un pezzetto nel punto più profondo dei polmoni. E non mollò.
Da quel giorno lei ebbe sempre un poco di vento dentro.
Normalmente non si notava. Ma talvolta, se apriva bocca per dire la sua, usciva fuori un
turbine di parole.
I vocaboli e i significati soffiavano fuori spingendo rapidi, travolgendo chi si trovava attorno
a lei.
Si trovò a imparare a tenere la bocca chiusa, respirando piano, a meno di essere certa di
poter liberare il tornado di parole.
Le parole viaggiano, come il vento. Possono volare da una persona all’altra, da una mente
all’altra. Attraversare il cervello fino alle dita e uscire fuori, su uno schermo, in un telefono, chissà dove, molto più lontano delle nuvole che lei e il vento guardavano formarsi, arrivare
ed andare.
E, come il vento, le parole possono trasportare odori e ricordi. Colpire o accarezzare.
Lei non sapeva più distinguere il suo fuori dal suo dentro. Con il vento non andava meglio.
Guardava dentro e sentiva un piccolo vortice di aria confusa, da qualche parte
nell’addome. Le emozioni parevano un groviglio impossibile da afferrare.
Guardava fuori e le sembrava di trovarsi nel piccolo ragno scuro che tesseva la tela o in
quella punta di rametto con quel germoglio, che occhio umano non vede, ma sta
spingendo per allungarsi ed aprirsi.
Cercava qualcuno per fare l’amore, per poter comunicare senza parlare.
Se faceva l’errore di aprire bocca, travolgeva l’altro con un vento caldo e secco di pensieri.
E questi, il più delle volte, chiudeva le finestre degli occhi e le porte del cuore, lo sguardo
chino per allontanarsi zitto.
Una sera un uomo, né giovane né vecchio, né magro né grasso, le fece una domanda
piccola e precisa e ne ascoltò la risposta senza fuggire.
Il suo sguardo era di un colore indefinito, né chiaro né scuro, ma diritto, diretto, come a
volerla attraversare.
Pareva mite e delicato. Sembrava, a dirla tutta, che il vento potesse spazzarlo via.
Sembrava, a dirla tutta, timido e tranquillo, come se le parole di burrasca potessero
spezzarlo. Sembrava, ma non era.
Quando si trovarono soli, sotto una volta di piccole stelle, la baciò nonostante le parole. Il
vento era leggero, aveva appena spostato le nubi, interrotto l’ultima pioggia, scoperto le
prime stelle.
E nudi come vermi restarono per un attimo senza parole da proferire e senza giudizi da
esprimere. Il vento stava morendo di nuovo. Lei lo notò appena, perché era distratta dalle
lunga dita dell’uomo coraggioso, tremendamente coraggioso, che la stavano esplorando
silenziosamente.
Fare l’amore era come un’onda. Il mare nelle vene, pronto a infrangersi e schiantarsi. Alta
montagna negli occhi, pronti a correre come vento con lo sguardo e inseguire le nuvole
dentro la sua testa e fuori nel cielo.
E nel momento in cui privi di parole il respiro si faceva più intenso, lei poteva liberare il suo
vento, perché rapidamente ritornava in lei, riassorbito dai gemiti e cullato dalle onde.
Ancora non lo sapeva, ma lo scoprì. Anche lui aveva un suo vento, una sua musica.
Come il vento, le strinse i capelli e soffiava il suo spirito. Voleva inspirare come a integrarlo
ed espirare come a creare nuvole di vapore. Non più inseguirle, ma farle.
Esalando, stava per lasciarlo andare, il suo vento. I polmoni spinsero ogni molecola,
l’addome cercò il vuoto e per un breve attimo, il suo vento perse la presa.
Fuori lo senti, il vento. Gemette in cima alla montagna. Poche foglie vecchie di faggio
tremarono e vibrarono, ma nulla più, perché il vento ancora non era in sé.
Lei tremò e vibrò, come foglia. Ma lui, l’uomo, la stava guardando. Non era lì per farla
tacere, ma per essere tempesta con lei. Vide un filo di vento risalire dietro le costole, così
strinse piano, ma abbastanza, sul suo collo.
Strinse a tenerle il respiro quel tanto che basta per attaccarsi a lei anche lui, dentro,
perché il vento restasse dietro la glottide e rimanesse suo.
Da allora lei, per un po’, le parole le tenne dentro, le coccolò. Il groviglio di emozioni era
sempre groviglio. Talvolta ancora non si distingueva dallo stelo d’erba o dall’ape. Ma non
sentiva più il bisogno di districarsi.
Il vento, lui, conobbe le nubi che si formano piccine quando l’aria è fredda e lei espirava
per scaldarsi le mani.
Lei lo portò con sé a sentire la salsedine. A respirare la nebbia fitta di quando non si
muove foglia.
Annusando, con attenzione.

Furono musica. Fuori e dentro come cosa sola.

3^ CLASSIFICAT*

Cucire stoffe e storie

di Patrizia Ercole

Le mani di Anna intrecciano i lunghi capelli castani di Greta, mentre lo sguardo
scivola dolcemente agli occhi luminosi di sua figlia, avvolta dalla calma serena che
produce l’abitudine del rito. In questo tempo sospeso dal lockdown sono proprio i gesti
quotidiani che restituiscono il senso della vita. Oggi è il novantesimo giorno di clausura
in casa. Niente lavoro per lei, niente scuola per Greta.
Il saggio poeta Antonio, datore di lavoro di Anna, aveva intuito subito la gravità
della situazione e anticipato quattro mesi di stipendio. Così il pane non è mai mancato
sulla tavola.
Non era stato facile accettare quel blocco improvviso. L’esistenza ridotta a un
mangiare, bere e dormire con i muri di casa come unico orizzonte. La situazione, così
inattesa, aveva richiesto alcuni giorni prima che entrambe riuscissero a elaborare la
nuova realtà da recluse, con la percezione della morte alla porta.
Probabilmente era stato proprio il sentimento d’angoscia a spingere Anna a
ripensarsi, per sé stessa e per sua figlia. Già dalla prima settimana aveva steso il
programma di attività giornaliere scansionate da tempi precisi:
ore 7.00 colazione; ore 8.00 studio per Greta e cucina per mamma; ore 10,30 controllo
compiti insieme; ore 12,30 pranzo; ore 14.00 giochi da tavolo; ore 16.00 cucire stoffe e
storie; ore 19.00 cena.
Quando Greta, quel lunedì mattino, aveva trovato il foglio con la lista appeso al
frigorifero, era rimasta a bocca aperta per alcuni secondi. Poi aveva chiesto eccitata alla
madre di spiegarle alcune voci dell’elenco, in particolare ‘cucire stoffe e storie’. La
madre aveva continuato a impastare farina, acqua, lievito e sale. Era molto divertita
dalla reazione della piccola alla sua lista.
«Mamma, cosa significa cucire stoffe e storie?» le domandò insistente.
«È tempo di mettere il pane nel forno!» esclamò Anna. Si diresse verso il forno,
seguita dallo sguardo curioso della figlia, e con gesti sapienti collocò l’impasto nella
teglia. Fu in quel preciso istante che Greta percepì che qualcosa non era più come
prima, ma cosa?
«Mamma, perché hai spostato la vecchia macchina per cucire vicino alla
finestra?» chiese stupita.

2
«Perché lì arriva la luce del sole che illumina l’ago sottile. Devi sapere che,
quando avevo la tua età, imparai a cucire sotto la guida attenta della nonna che era una
sarta molto ricercata. La sartoria era la nostra casa, io sono stata per vent’anni la sua
aiutante: l’ho vista creare gli abiti per vestire le signore del paese. Ogni vestito restituiva
a quelle donne una rappresentazione in stoffa della loro personalità. Alla tua età sapevo
fare: gonne, pantaloni, abiti, grembiuli e anche borse colorate per portare la spesa. È
vero che in questa casa non hai mai sentito il rumore dei pedali della macchina: il cucito
richiede tempo e concentrazione. Ora noi abbiamo questi due ingredienti e possiamo
provare a fare qualcosa di utile e bello per gli altri. Stamattina, quando tu ancora
dormivi, è passata Maria, della Protezione Civile, e guarda nella cesta vicino alla
finestra che cosa mi ha portato.»
I raggi del sole cadevano morbidi, filtrati dalla grande tenda bianca della
finestra, rivelando il contenuto: minuscoli pezzi di tessuto a fiori, a righe, a tinta unita,
adagiati come in un’originale tavolozza di colori e segni grafici.
«Mamma ma non si può fare un vestito con questi pezzetti.» disse un po’
amareggiata Greta, continuando a rigirare tra le mani quegli scampoli, forse avanzi di
lussuosi abiti, con già una loro storia da raccontare.
«Volendo si potrebbe anche farne un vestito, con un po’ di pazienza e impegno.»
rispose Anna, e continuò: «Pensa a quanti puzzle abbiamo fatto insieme in questi anni?»
La domanda non trovò risposta, l’espressione sul volto della figlia sembrava un grande
punto interrogativo.
«Tranquilla, Maria mi ha chiesto di cucire delle mascherine per la gente del
paese, mi aiuterai Greta?»

«Certo, se m’insegni.» rispose la bambina, iniziando con le mani a scegliere
dalla cesta: estrasse un rettangolo con pappagallini colorati stampati su fondo bianco.
Con l’immaginazione li vedeva già volare liberi per le stradine di Buonconvento, sopra
il sorriso di un bambino, che in loro compagnia sconfiggeva la paura del coronavirus.
«Possiamo usare questo, mamma?»
«Certo, è molto bello, e mi parla di te.»
«Non ho capito mamma. Che cosa vuoi dire?»
«Non si sceglie mai a caso Greta, quei pappagallini in volo raccontano una
storia, che già esiste nella tua mente, anche se non lo sai.»
«Allora mamma posso sempre scegliere io la tela da cucire, e poi insieme
inventiamo la storia, va bene?»

3
«Sì, figlia mia.»
«Guarda mamma che bella questa con i colori dell’arcobaleno!»
«Iniziamo a cucire la stoffa o le parole?» domandò Anna, con un sorriso
luminoso che le fece brillare gli occhi.
«Le parole, mi sembra più difficile. Dopo m’insegni a usare la macchina a
pedali, sarà un po’ come andare in bicicletta in casa!»
«T’insegnerò anche a usare bene i freni, per non pungerti.» disse Anna,
sopraffatta da un’allegria che arrivava da molto lontano: dalla sua infanzia.
La produzione di mascherine iniziò quel pomeriggio. Da cinque al giorno
arrivarono a produrne trenta. Maria continuava a rifornire di stoffe la casa, a volte
c’erano anche degli scampoli grandi, così Anna iniziò a passare l’arte del cucito a sua
figlia. Confezionò dei vestiti per le tre figlie del poeta Antonio, per ringraziarlo dei
quattro mesi di stipendio anticipato.
Le mani di Greta impararono a poco a poco a riconoscere al tatto le differenti
stoffe. Guardava incantata la madre prendere un tessuto, e con l’uso della sua arte,
trasformarlo in un abito. Per lei era un puro atto di magia, fatto con le proprie mani. Nei
suoi quaderni di scuola, dove c’era uno spazio bianco, incominciarono a comparire
schizzi di abiti. Si stava trasformando in una figurinista: colorava i disegni e indicava
anche quale stoffa avrebbe reso al meglio i volumi e le forme del suo modello.
Il primo abito che Greta si era cucita da sola era in mussola di cotone, con
piccoli fiori gialli di mimosa stampati su un fondo verde acqua. In principio c’era stato
solo il suo disegno, poi trasformato nel cartamodello da appoggiare sulla stoffa, tagliato
e cucito ad arte. Questo aveva imparato quel giorno: il vestito aveva preso forma perché
lei aveva saputo immaginarlo… un po’ come le storie.
Anche le storie scritte, scaturite dalle trame dei tessuti, ogni giorno diventavano
più articolate e complesse. La consistenza dei tessuti, percepita al tatto, suggeriva spunti
narrativi e dava corpo ai personaggi.
Nella sua ottantanovesima notte di lockdown, Greta aveva fatto un sogno: lei, da
grande, sarebbe diventata un’artista a cucire stoffe e storie.
Stamane Anna, intrecciando i capelli di sua figlia, pensa a quante cose hanno
fatto insieme stando dentro casa. Greta, invece, è già con la mente al momento della
giornata in cui potrà pedalare sulla macchina: viaggiando dal presente al passato, in
trame intrecciate di memoria. E lì con le sue mani e la sua immaginazione, costruirà il
suo futuro.

Cesaris V.

di Bernardo Graneris

Superammo il fiumiciattolo con un paio di balzi, facendo
attenzione a non scivolare sull’umido delle pietre affioranti. Era
una bella giornata di sole e sopra le nuvole un infinito cielo
cristallino risplendeva di un blu cobalto: splendida cromia di una
mattina d’estate. Noi, ancora bambini, ancora incoscienti di tutta
l’immensità che ci circondava, esploravamo il bosco dietro il
parco del paese, uno sputo di verde che diventava un mondo distante,
sotto le scarpe di stoffa e plastica da bambini, ora pesanti
astroscarponi militari, imbracciando i nostri bastoni a mo’ di
fucili sormontati da baionette a catena tanto grandi da dover usare
due mani per reggerli a dovere. Ma per noi non era un problema,
per i nostri muscoli da astromarines diventavano quasi leggeri.
Respiravamo all’interno di elmetti rinforzati nel quale bombole
montate nell’armatura ci rifornivano di fresco ossigeno, utile a
contrastare l’aria solforica del pianeta viola. Da tempo
marciavamo in una steppa desolata che poi era diventata una
sinistra foresta in cui l’ostile vegetazione extraterrestre stritolava
le rovine di civiltà scomparse millenni prima.

– Tutto a posto, Colonnello? – domandavo, attendendo l’arrivo
del mio compagno sulla riva del profondo fiume gorgheggiante.

– Tutto a posto, Generale – rispose Clarson, balzando giù
dall’ultima roccia per raggiungermi.

– Quanto odio questo posto maledetto, Cesaris V è il peggior
pianeta in cui sia mai stato in missione durante i miei
quarantotto anni di carriera.
Dicevamo numeri a caso, così come a caso avevamo attribuito i

nostri gradi militari, scimmiottando le battute di film e
videogiochi, incapaci di contestualizzarle.

-Anche il mio Generale Cromov, non ho mai visto posti e
insettalieni così ostili.
Le colline, le vigne, i campi, il torrente che scorreva oltre i
pioppeti, la grande mezzaluna delle montagne, questa era
l’estensione del nostro mondo: percorsi che potevamo fare al
massimo in mezz’ora di bicicletta ma che diventavano distanti
paesaggi alieni in un battito di ciglio.

– Se non sbaglio la via è per di qua, signore! – disse Clarson,
avanzando verso la vegetazione. Accese la sua baionetta a
catena e prese a sminuzzare gli ostili muraglioni di rovi acuminati che ci
ostruivano il percorso, piante famose per uccidete in pochi
istante qualsiasi uomo ne rimanga ferito.

-Fai attenzione, questo posto mi puzza di insettalieni – lo
ammonii, seguendolo.
Arrivammo in un piccolo spiazzo all’interno del bosco, un punto
in cui il contadino aveva abbattuto una serie di alberi
ammonticchiandoli in cataste ordinate, forse preparando spazio
in vista dei lavori dell’autunno.
Per noi era come camminare in un’immensa radura, ricavata
dalle instancabili braccia dei coloni umani tra la violacea vegetazione
del pianeta. Lì era stata costruita una colonia, di cui ora le
piccole baracche futuristiche, simili ad igloo tecnologici, giacevano
devastate senza più alcun colono nei paraggi.

-Cosa è successo qui? – domandai, guardandomi attorno tra le
porte divelte ed i segni delle esplosioni, ancora fumanti,
presenti sul terreno.

-Non lo so, ma sarà meglio guardarci le spalle – rispose Clarson, avanzando all’indietro, dietro di me. Si guardava attorno con l’arma spianata.
Camminammo verso il centro della colonia cercando, da qualche parte, qualsiasi traccia che ci potesse rivelare dove erano stati portati i poveri coloni.
Sulle mura degli edifici, scardinati e ribaltati dalle fondamenta,
c’erano i chiari segni delle armi laser, monito di un qualche tipo
di combattimento, ma contro chi?

– Insettalieni! – esclamò Clarson, alle mie spalle.

-Sì, non vedo chi possa essere stato – risposi, guardando una
vecchia maglia, lasciata lì forse proprio dal contadino.

-No, ci hanno circondato!- Mi volsi, uno sciame di insetti alieni, alti due metri e con il loro
spesso carapace viola e nero, spuntavano dal fitto della
vegetazione, balzando sulle casupole distrutte e correndo verso
dinoi.
Senza un briciolo di esitazione imbracciammo i fucili ed
iniziammo a fare fuoco. Gli esseri cadevano l’uno dopo l’altro in
grosse chiazze di sangue giallastro, alcuni perdevano zampe o
gambe ma riuscivano comunque ad avvicinarsi tanto a noi che
eravamo costretti a finirli a colpi di baionetta a catena.
Eravamo nel pieno del combattimento quando una voce lontana
ci riportò alla realtà: il contadino, sentendo le nostre grida e risate,
si era affacciato sulla collina, gridandoci qualcosa dall’alto.

-La matrona! – urlò Clarson, puntando sull’immenso insettoide il
grande fucile in modo da coprirmi la ritirata.

Colpii tutti gli insettalieni che mi si paravano di fronte,
sminuzzando i più vicini con la mia baionetta, mentre Clarson,
dietro di me, si occupava di tenere a bada la grande matrona
che ciinseguiva abbattendo alberi e trascinando via la vegetazione
alle nostre spalle.
Corremmo nel bosco a lungo, sentendo le grida del contadino
inseguirci tra i raggi di sole e il verde delle sterpaglie nei
cinguettii del mattino.
Una volta scomparsa la paura ci fermammo, ridendo, a
riprendere fiato, accaldati in quella soffocante mattina di sole. Eravamo in
una piccola ansa del ruscello, poco lontana da casa mia e che
dava su una sorta di dirupo, più una riva scoscesa, sul quale si
vedeva il tetto della vecchia cappella della Madonna dei campi.

-Mi sembra che ci sia un bel po da scalare – commentò
Clarson, ammirando le superfici scoscese dei Monti Sulfurei, su cui gli
alberi crescevano sottili e contorti, artigliati alla poca terra scura
che sporgeva dalle rocce.
Guardai quella imponente salita, quegli spuntoni di roccia che
fendevano le nubi violacee del pianeta. Là, a quell’altezza,
vedevamo le ombre degli insettalieni muoversi attorno al nido.

-Se i civili sono da qualche parte devono essere lì dentro –
commentai, – ma ce la faremo in due?

-Ce l’abbiamo sempre fatta – rispose Clarson.
Montammo aggrappandoci ai rami più sottili, la riva dei
boschetti non era così ripida e volendo la si poteva salite anche correndo,
ma era più divertente balzare da uno dei piccoli alberi all’altro
inseguendo quell’idea agile di scalata tipica dei videogiochi.
Arrivati a metà salita, quando già potevamo vedere il tetto della
chiesetta sulla cima, un rumore mi spinse a voltarmi.

-Clarson – gridai, allungando la mano sul vuoto.
Clarson la afferrò al volo, eravamo in bilico tra la vita e la morte,
sospesi centinaia di metri sopra la foresta viola, entrambi sorretti
da un solo ramo secco.

La pietra ha ceduto sotto il mio piede…

-Non ti preoccupare, ti sollevo io – dissi, col cuore pieno di
eroismo anche se già sentivo cedere il ramo a cui mi
aggrappavo.

-Comandante, non faccia l’eroe, non possiamo farcela tutti e
due! -esclamò Clarson.

-Non lascio cadere così un amico – risposi io, stringendo i denti
per lo sforzo.
Dall’alto, intanto, proveniva il sinistro ronzio degli insettalieni,
sempre più vicino, sempre più opprimente…
All’improvviso una voce mi chiamò aldilà del ruscello, il ronzio
degli insettalieni si spense e la mia mano si chiuse sul vuoto.
Ero di nuovo solo.

– Cosa ci fai lì appeso come una scimmia? – mi disse mia
madre, chiamandomi per il pranzo.
Il mio stomaco brontolò.
Lasciai la presa e mi avviai verso casa.

Fuori e dentro

di Elena Spoerl

Ogni volta che fotografo gli sposi – e capita spesso visto che è il
mio mestiere – percepisco colgo avverto i primi segnali della
probabile fine. E’ qualcosa d’indefinito, basta uno sguardo, o un
mancato sguardo, un gesto troppo rigido o troppo molle, un tono
metallico nella voce… ma appena appena, intendiamoci, appena
appena, in quella che complessivamente è sì, certo, un’aria di festa,
di gioioso e atteso compimento… eppure… be’, non mi è mai
capitato di non cogliere anche un’incrinatura, come dire, una nota
stonata, un presagio.
Mi hanno detto: la tua è una deformazione professionale. Tu
fotografi e per immortalare il giorno solenne tutto dev’essere
perfetto: le pieghe nello strascico di lei, i polsini di lui… la coppia
deve apparire serena anche se magari è nervosa, tutto deve
sembrare naturale anche se invece è sapientemente calcolato: le
luci, l’atmosfera e pure i familiari, vicini ma discreti, non addosso.
Sì, confesso: vorrei riuscire a trasmettere le trepidanti aspettative
degli sposi e la loro impazienza, cogliere quel barlume negli occhi,
fotografare l’anima. E invece ancora capita che mi venga chiesto di
nascondere una prematura gravidanza.
Oh, poter offrir loro la scintilla dell’intesa che li ha fatti
innamorare! E’ il mio sogno. In passato avevo quella sensazione
quando, assieme all’album, consegnavo anche le negative, affinché
le fotografie potessero essere, sempre e di nuovo, sviluppate.
“Questi siete voi, dentro e fuori” pensavo.
Ma oggi anch’io lavoro ormai con l’apparecchio digitale, che non
ha negative, non sviluppa, riproduce e basta.
L’Originale non c’è più. Sin dalla prima, sono tutte copie.
Povere coppie.

Dentro e fuori di me

di Roberta Galeano

I fogli bianchi che la maestra ha messo uno accanto all’altro, appesi alla finestra della nostra classe, mi indicano lo scorrere del tempo. Li si può vedere anche dall’esterno della scuola. Sul retro sono tutti bianchi, ma davanti hanno i disegni delle attività che svolgiamo durante la giornata. Io li guardo e so che, dopo il cerchio del mattino e una storia della maestra, giocheremo, metteremo in ordine, faremo merenda e usciremo a giocare in giardino.

So che dopo aver giocato fuori, rientreremo per disegnare e poi andremo
a fare ginnastica, ci laveremo le mani, mangeremo il panino, usciremo, rientreremo in classe, metteremo di nuovo in ordine, faremo il cerchio per salutarci e andremo via, fuori, dove ci aspettano le nostre mamme.
Io non so come mia madre faccia a capire quando è il momento giusto di arrivare a prendere me e mio fratello fuori scuola, senza fogli che le indichino il momento giusto. So solo che lei è sempre lì quando usciamo, non sbaglia mai, a volte forse fa un po’ più tardi, ma poco dopo arriva, arriva sempre.

Una volta mia madre mi ha detto che lei lo sa perchè guarda il suo orologio, quello che porta sul polso e che le abbiamo regalato io, mio padre e mio fratello ad un suo compleanno, quando vivevamo nella casa di Bratislava. È un orologio nero, che si può illuminare al buio e che a volte mia madre mi presta per farmi giocare.
È strano questo modo di sapere quando la scuola è finita. Io non ho capito molto bene come funziona, ma per essere felice mi basta sapere che mia madre sarà lì quando esco ed inizia il pomeriggio insieme a lei e a mio fratello. L’unica cosa che mi dispiace è che dopo scuola il tempo è breve, arriva presto il tramonto e il giorno finisce.

Io vorrei che il pomeriggio fosse molto più lungo, che non arrivasse mai la sera e che restassimo molto più tempo al parco a giocare tutti insieme, soprattutto quando non piove, fa ancora un po’ caldo e io posso mettermi addirittura i sandali, che mi fanno pensare al mare, all’estate e ai nonni.
Tutte queste cose io le ripeto dentro di me, a bassa voce, mentre aspetto mia madre, guardando il tempo scorrere attraverso i fogli bianchi. Me lo ripeto in silenzio, tra me stesso, in italiano, così anche se qualcuno mi sente non capisce, perchè nessuno parla italiano qui in Olanda e queste cose che mi dico sono un segreto, un segreto che voglio tenermi stretto e non voglio condividere con gli altri. Può capitare che mi senta mio fratello, ma lui, mi ha assicurato, sa mantenere un segreto.

Altre volte invece mi capita di pensare a cose molto più grandi di me, che mi fanno molta paura, come il manicomio o la guerra.
La prima volta che ho sentito la parola manicomio mi sono spaventato. Mia madre era molto arrabbiata con me e mio fratello e ha detto che sarebbe finita in un manicomio. Il tono della sua voce non era affatto rassicurante e io ho capito subito che il manicomio non era per niente un posto piacevole. Da quel momento non ho mai più dimenticato questa terribile parola e qualche giorno fa ho chiesto a mia madre cosa significasse.

Il manicomio è come un labirinto, mi ha detto lei, perchè le persone che vi entravano, si perdevano e facevano molta fatica ad uscire. Ad aiutarle però arrivava un bambino, il bambino che erano state un tempo e a quel punto ritrovavano la strada di casa. Per fortuna mia madre mi ha detto anche che i manicomi non esistono più e che non dirà mai più una cosa del genere. Era anche molto dispiaciuta e mi ha chiesto scusa. Ho quindi provato subito un grande, fortissimo sollievo.

Le domande sulla guerra, invece, ho iniziato a pormele dopo una gita con i mei genitori a Nardeen, una città olandese che nel passato era stata una città fortezza. Di questa fortezza conserva ancora le mura, il fossato con l’acqua e i cannoni.

La città era davvero molto bella, ma io non avevo mai visto in vita mia dei cannoni e quando me li sono ritrvati davanti, in tutta la loro grandezza, ho avuto molto paura. Mio padre però mi ha subito spiegato che questi cannoni non funzionavano più, che dentro non c’era nulla e che non potevano più sparare o uccidere nessuno. Io e mio fratello allora ci siamo sentiti più sollevati e abbiamo iniziato a giocarci insieme agli altri bambini che erano nella nostra stessa piazzetta con i loro genitori.

Ci siamo arrampicati tutti sui cannoni e li abbiamo cavalcati, fingendo di correre veloci su cavalli marroni e poi di volare come aeroplani.
Così degli antichi e pesanti cannoni, un tempo serviti per la guerra, hanno smesso di terrorizzarci ed io ho pensato che è proprio bello andare in giro per il mondo con la mia famiglia, perchè ci sono tante cose da scoprire.

A volte, certo, può capitare di spaventarsi, perché le cose nuove o diverse da tutto quello che noi conosciamo possono intimorirci, ma non è detto che esse non si trasformino in qualcosa di divertente e meraviglioso. Certo non ho smesso di farmi domande su quel tempo in cui c’era la guerra e dalla bocca dei cannoni uscivano palle di fumo e di fuoco ma, di tanto in tanto, ne parlo con mia madre e lei mi rassicura, provando ad appagare la mia curiosità con le sue risposte.

Dissolvenza

di Elisabetta Maria Zocca

Non ricordo.
Cosa mi ha detto l’infermiera? O forse era il dottore… Non ricordo. I loro volti mi appaiono confusi, il naso alto, la bocca in basso, gli occhi che volano su, verso l’attaccatura dei capelli… I denti, ho visto dei denti, ma non so dove, so solo che erano troppo bianchi. È difficile distinguere le persone quando appaiono così deformi. Fanno paura. Tanta paura. Specie se ti svegliano quando c’è buio per farti ingoiare qualche pastiglia. Come si dice quando c’è buio? Devo pensarci. Notte. Quando fa buio è notte.
Io lavoravo di notte, almeno mi sembra di ricordare così. Lavoravo anche di giorno, ma lo ricordo come un fluttuare. C’erano binari e tanti treni e un tetto di vetro. Sembrava sempre sul punto di crollare. Quanto tempo è passato? Non era oggi? Dov’è il ticchettio? Senza non posso lavorare…
Ah eccolo qui, ticchetta sempre, ci sono delle lettere FS, forse sono le iniziali del mio nome? Perché ho in mano l’orologio? Ricordo che lavoravo di notte. Ricordo l’odore di trementina, il grattare delle setole e l’olio che mi scivolava tra le dita.
« Non ricordo. » Una frase innocua, eppure è stato l’inizio di tutto: la ripetizione continua di queste due parole. Prima una volta o due, poi cinque, sei, sette volte al giorno e piano piano, non vista, la malattia si è insidiata nelle nostre giornate. Nessuno di noi due ci ha fatto caso, fino a quando non lo abbiamo trovato sdraiato per terra, in quella stanzetta che chiamava il suo studio, con la testa in una pozza di sangue di un rosso così vivido che sembrava venir fuori da uno dei suoi tubetti di colore.
Mia sorella si è messa ad urlare e l’ambulanza è arrivata in pochi minuti. Dopo averci detto che non c’era niente di cui preoccuparsi, che era solo un taglio superficiale e che non c’erano stati altri danni, un dottore mi ha preso da parte per parlarmi e da lì sono iniziare le visite, i medici, gli ospedali e gli esami. Un’infinita successione di grigie sale d’attesa, tutte con lo stesso odore chimico di disinfettante che ne copre di ben peggiori.
All’improvviso vedevamo cose a cui prima non facevamo caso: l’espressione confusa che aveva davanti alla caffettiera, la lentezza nel comprendere le parole, il girare attorno alle nostre domande quando non sapeva rispondere, magari facendo una delle battute per cui era diventato una leggenda quando lavorava in stazione. Prima le battute erano sempre diverse, poi si sono ridotte alle solite, alla fine sempre la stessa. Anche quello era un segnale. E ora sono qui, davanti a lui, mentre mi guarda e non mi vede.
Che fiori sono questi?
Gigli? Margherite? Mi piacevano i fiori, credo. Dopo che Rita è morta ne ho imparati tanti, ma solo perché piacevano a lei e volevo farle un regalo, anche se non poteva vederlo più. L’uomo seduto vicino a me è qualcuno a cui voglio bene, anche se non sono sicuro di chi sia. È lui a portarmi i fiori, sempre diversi ogni volta che viene. A volte, quando ho abbastanza forza, li accarezzo. Mi ricordo i loro colori, anche se a volte non li chiamo con il nome giusto, in quei casi l’infermiera mi corregge e mi fa dire la parola giusta tante volte. Così tante che alla fine non ricordo più di quale colore stavamo parlando. Toccare i fiori mi aiuta a ricordare il modo in cui li disegnavo. Perché li disegnavo? Ecco, questo non lo ricordo mai. Succede sempre meno spesso che ci riesca, però, il mio corpo non mi risponde. Non riesco a sentire lo spessore dei petali, né la loro morbidezza.
Mentre la mia mente vaga in una nebbia in cui non riesco a orientarmi, il fuori diventa sempre più distante.
« Papà! »
Diciassette nomi di fiori, ventuno animali, ventotto oggetti… Ho delle liste che aggiorno
settimanalmente. Mio padre ha sempre dipinto i soggetti più vari. Gli piacevano le scene complesse, quelle piene di dettagli e figure, tutte intente a fare qualcosa, come quelle dei grandi artisti fiamminghi, ma negli ultimi anni, quando i “non ricordo” e gli occhi vacui erano più rari, si era concentrato su cose più semplici, come fiori, animali e nature morte.
Sembrava quasi che sapesse e volesse nasconderci la sua malattia.
Mia sorella ancora fa fatica ad accettarlo, viene raramente a trovarlo e quando lo fa scoppia in
lacrime dopo pochi minuti. Un giorno papà le ha chiesto se piangeva per un brutto voto a scuola, da allora cerco di proteggere anche lei, tenendola lontana dal dolore.
La malattia è progredita in fretta. Mai avrei pensato di essere di fronte a lui e sentirmi invisibile dopo così pochi anni dalla diagnosi… O meglio, dal labirinto di diagnosi che gli sono state fatte. È odioso sapere così poco, avere solo liste di nomi dietro ai quali non c’è nulla. È odioso vederlo perdersi nella sua mente e rimanere chiusi fuori, a far sbattere parole contro muri invisibili.
Non riesco più a disegnare le farfalle.
Nel posto dove vivo mi lasciano sempre un foglio e delle matite colorate. Credo sia l’uomo dei fiori a chiederglielo. Parlavo delle farfalle? Sì. Quando ci penso mi viene sempre in mente un’immagine, la mia sorella più vecchia mi aveva insegnato a disegnarle. Erano bellissime ed erano facili da disegnare. Ora fatico a ricordare come completarle. È tanto che le mie dita non riescono a chiudersi bene intorno alla matita, capire dove trascinarla sulla carta è sempre più faticoso. Il mio corpo non c’è più. Lo vedo, ma non è mio.
L’uomo dei fiori mi somiglia così tanto che credo sia mio figlio… No, non può essere, mio figlio è piccolo. Quanto tempo è passato dall’ultima volta che ho visto Rita e i bambini? Dove sono finiti?
Perché non sono qui con me? Sono malato?
Questo tipo mi fa un sacco di domande, forse è un dottore. Sono sempre molto stanco quando se ne va. Forse lui sa dov’è la mia famiglia. Non so sempre rispondere alle sue domande, quando non ci riesco aspetta un po’ e poi fa una faccia triste.
Metterlo a fuoco è sempre più difficile.
« Papà, mi senti? »
Per me è sempre mio padre, anche se mi hanno detto che inevitabilmente diventerà solo un
contenitore che somiglia a mio padre, ma non lo è più. È inconcepibile e ha perfettamente senso.
Emotivamente impensabile, scientificamente sensato. Allo stesso tempo.
Come si può venire a patti con questo? Come si può sopportare questo dolore continuo, fatto di spilli che si conficcano sempre più in profondità? Guardo mio padre fissare i fiori sul tavolino e non riesco a immaginare di sopportare un altro giorno.
Vedo altri uomini e donne incontrare i loro cari e alcuni di loro soffrono terribilmente, come mia
sorella, mentre altri hanno ormai accettato la perdita e la morte. Vorrei dire loro che quella che
credono essere morte non è altro che dissolvenza.
La morte è un fatto, un evento concluso nel passato, invece questa è un’attesa senza rimedi, né rallentamenti fortuiti. Quello che stiamo vivendo noi è tutto tranne che concluso e ogni volta che mio padre mi guarda, cercando di nascondere il fatto che non riesce a riconoscermi, ne ho la conferma.
Non c’è nulla da accettare, l’unica cosa che si può fare è aspettare che l’interno coincida con
l’esterno, nel bene o nel male.

Il ragazzo delle conchiglie

di Patrizia Mosconi

Fin da piccolo Gabriele era attratto dalle conchiglie. Aveva iniziato a raccoglierle in una giornata dove mare e cielo avevano lo stesso colore: grigio. Camminava annoiato sulla spiaggia deserta strisciando i piedi nella sabbia, lasciando dietro a sé una lunga scia. “Ecco le tracce di un serpente preistorico” pensava ridacchiando.

La scia stava diventando interminabile quando fu attratto da una bianchissima conchiglia. E così iniziò la collezione… una, un’altra, poi un’altra ancora. Le raccoglieva, le portava all’orecchio ascoltando la loro voce, la voce del mare, poi, a casa, le riponeva in un cassetto... il suo mare nel cassetto…

Il tempo passava, Gabriele cresceva e con lui la sua collezione; le pareti della casa erano coperte da ripiani carichi di conchiglie provenienti da mari lontani e pian piano anche da tempi lontani, affascinanti conchiglie di pietra. Ogni viaggio era un’occasione per accrescere la raccolta e quel giorno, su una spiaggia remota, dove cielo e mare avevano lo stesso colore, azzurro, Gabriele si ritrovò a strisciare i piedi nella sabbia lasciando una lunga scia… “ecco le tracce di un serpente piumato” disse ridacchiando tra sé, ma inciampò e finì a terra.

Si guardò attorno fregandosi il piede dolorante, qualcosa spuntava dal terreno! Incuriosito spostò un po’ di sabbia e una strana sensazione lo spronò a scavare sempre più in profondità prima lentamente, con un dito, poi freneticamente, come un cane che sta dissotterrando un osso. L’immagine del cane lo fece di nuovo ridacchiare, scavò ancora un poco ed ecco una grande, affascinante, misteriosa conchiglia grigiastra. 

“Un caracol, antico e bellissimo!” gridò alzando la conchiglia verso il cielo. Gabriele girò e rigirò la grossa conchiglia tra le mani. Qualcosa lo trattenne dal portarla all’orecchio, una strana sensazione gli suggerì di non farlo… rigirò ancora la conchiglia tra le mani, la alzò verso il sole picchiettandola per far uscire tutta la sabbia poi, con un alzata di spalle, la portò all’orecchio…e in un attimo il mare della conchiglia lo intrappolo all’interno!

Gabriele cercò di scalare le pareti a spirale della conchiglia, sapeva che era un’impresa impossibile: c’erano molte incisioni tutt’attorno che raccontavano di altre persone rimaste intrappolate per lungo tempo laggiù, e allora si sedette sul fondo… Non restava che aspettare. Qualcuno passeggerà sulla spiaggia, inciamperà nella conchiglia… Ma non dovrà ascoltare la voce della conchiglia, la voce del mare, per liberalo dovrà suonare le misteriose note dell’Atecocolli. 

Il viaggio di Hermit

di Vanessa Bonacina

Hermit si stava preparando a traslocare. Nonera il primo “cambio conchiglia” che affrontava. Per dirla tutta il paguro era già al terzo trasferimento della sua vita. Eppure ognivolta era una grande emozione. E una grande fatica.

Per questo c’era da prepararsi.«Coraggio» si disse mentre le prime due paia di zampe, quelle più lunghe, si sporgevanoverso il nuovo rifugio. «Forza» si ripeté spingendo le zampe posteriori, quelle più saldamente ancorate alla conchiglia ormai troppo piccola per il suo corpo grandicello.

Il passaggio nella nuova casa alla fine fu più semplice a farsi che a dirsi. Poi però capitò che, nel guscio appena occupato, Hermit cominciò a guardasi intorno. Una, due, tre volte. Al paguro cominciò pure a girare la testa. E non perché avesse soffiato il rifugio a qualcuno. Questo mai: lui era un paguro come si deve e i paguri non rubano la casa a nessuno. Si impossessano solo di conchiglie vuote.

«Per tutte le onde del mondo!» esclamò Hermit nel pieno di quello smarrimento che gli ricordava così tanto la stessa strana sensazione, mista ad autentica paura, che aveva sperimentato al trasloco precedente e a quello prima ancora. Quel doversi abituare ai nuovi spazi, colori, odori. Al suono della sua voce che rimbombava dentro il guscio. Di nuovo. E infatti non credeva ai suoi peduncoli striati di rosso: era spaventato e stordito, nonostante quel cambiamento l’avesse proprio desiderato. (A essere sinceri non aveva scelta: la conchiglia precedente gli stringeva sul pancino e le zampine anteriori, quelle più lunghe, ormai gli rimanevano fuori, a penzoloni). E allora perché adesso voleva quasi fare marcia indietro come un gambero di fronte al più piccolo dei pericoli?

Hermit spalancò gli occhi e osservò tutt’intorno, in cerca di conferme. Doveva ammetterlo: la nuova casa era adatta alle sue esigenze e lo metteva al sicuro dai pericoli. E dalla notte.

A pensare all’imbrunire a Hermit venne in mente la prima sera trascorsa nella seconda

casa, quella prima di questa, quando il buio gli sembrava più nero del nero. E, lì nel guscio

fresco fresco, si ricordò di quell’inquietudine che spingeva i suoi occhietti vispi a fare di

continuo capolino dalla conchiglia finché, nell’incessante andirivieni, il suo sguardo fu rapito dai luuuuuunghisssssssimi salti di un talitri.

«Uau… Come farà quell’esserino a fare acrobazie tanto spettacolari?» si era chiesto.

«E pensare che di giorno quel piccoletto non si fa neppure vedere in giro» constatò il paguro. Poi, un salto venuto non troppo bene, avvicinò improvvisamente l’acrobata allo spettatore. E il talitri si raccontò: disse che era «uno che durante le ore di sole si nasconde sotto la sabbia o, ancora più volentieri, sotto le alghe trascinate dalle onde». Uno che esce «solo con il buio». Un salto incredibile se lo portò via ma, da quel giorno, la notte cominciò a piacere di più anche a Hermit.

Al paguro faceva bene ripensare alla voce del talitri, anche se quell’animaletto si era fermato con lui così poco da non avergli lasciato neppure il tempo di chiedere come si chiamasse. Se vogliamo dire le cose come stanno per davvero, Hermit era un tipo di poche parole, un po’ allergico alle amicizie. E non vedeva di buon occhio neppure i legami con gli altri paguri e con Ghi in particolare.

Con quel prepotente una volta si era azzuffato: tutti e due avevano messo gli occhi sulla stessa conchiglia vuota e, per accaparrarsela, se le erano date di santa ragione. Finì che vinse l’altro ma quella circostanza valse almeno un insegnamento prezioso: non si litiga con uno che è due volte più grande di te.

Da allora Hermit ebbe da ridire molte altre volte con molti altri suoi simili ma non arrivò mai più alle brutte con nessuno (nessuno almeno più grosso di lui).

Un tuono improvviso lo fece sobbalzare, lì in quella conchiglia nuova e lucida, in quel dentro pieno di ricordi che un pochino lo faceva sentire ancora fuori luogo. Tanto fuori.

«Troppo fuori?» si chiedeva. E allora controllò di avere tutte le zampe ben raccolte

dentro il guscio. E fu proprio in quell’istante che alla mente gli tornò un’altra tempesta. La

tempesta. Quella che l’aveva sorpreso, terrorizzato e ammutolito. Quella volta fu la prima in cui conobbe tutta la potenza della natura: il mare arrabbiato, il rumore sordo delle onde che sbattevano pesanti sulla battigia. L’urlo del vento: quello non lo dimenticherà mai. Solo la vista di un granchio, poco distante da lui, lì sulla sabbia, fece resistere Hermit dall’abbandonarsi al terrore più cupo. Anche l’altro là fuori era terrorizzato da quei lampi che illuminavano a

giorno il cielo. Lo si capiva chiaramente dal frastuono che, tremando, producevano le sue

chele sbattendo l’una contro l’altra: tac-tactac.

Tac-tac-tac.

Ma il crostaceo non se ne lamentò e Hermit gliene fu grato. Si

scambiarono solo uno sguardo veloce, un patto silenzioso tra due creature che lottano

per la stessa cosa. «La sopravvivenza? Chissà» si chiedeva e rispondeva il paguro.

Quel giorno Hermit sopravvisse alla furia del mare e del vento e a tutte le domande infauste

che gli suscitavano ogni bagliore e ogni fragore esploso nel cielo.

E ne uscì grazie auno sguardo, un’intesa, il cenno di qualcuno là fuori che l’aveva riportato completamente dentro il rifugio in cui avrebbe voluto essere, dentro sé stesso. E così gli stava capitando anche in quell’istante. Le luci e le ombre del passato, le memorie di una vita, gli stavano accanto e lo accompagnavano nel nuovo viaggio.

Portandosi dietro tutti i sorrisi, gli incontri, i timori e le emozioni assaporate. Hermit quella notte non aveva fatto solo un salto da una conchiglia all’altra ma anche un incredibile balzo dentro il suo cuore.

E coltivare i suoi ricordi lo faceva stare bene.

Quando alla mente richiamava gli episodi che aveva vissuto non avvertiva più gli spifferi

corrergli lungo la schiena, la sua voce non gli faceva più eco nelle orecchie. Lì, nel suo

nuovo guscio, era riuscito a sfuggire all’onda lunga della fretta e a godersi in pace le sue

memorie e quella dolce malinconia che ciascuna di essa porta con sé. Strappandogli

talvolta lacrime e talvolta sorrisi e, di tanto in tanto, entrambe le cose, un po’ come quando

piove ma da una nuvola sbuca un sole caldissimo.

Hermit strada facendo aveva conosciuto la potenza del mare e del vento e da quel giorno

anche la forza dei ricordi. Di tutti i ricordi, belli e brutti: di tutti gli incontri e gli scontri,

le intese e le baruffe, le conversazioni e i silenzi. Nella nuova casa Hermit aveva portato

tutto quanto. E ora che aveva messo ciascuna cosa al suo posto, per tutte le onde del

mondo, si sentiva davvero… davvero… felice.

Le cose che si portano dentro

di Veronica Biagiotti

Ai piedi del Monte Ventoso, nel Paese degli Aquiloni, soffia sempre un leggero venticello. Qui,  il gioco preferito dai bambini è far volare grandi aquiloni colorati, aiutati dal vento che arriva  dalla cima e se ne va verso il mare. Nina e Viola abitano in due case vicine. Sono amiche, e sono  entrambe molto curiose. A loro piace uscire ogni giorno in cerca di qualcosa di nuovo. Con una  differenza: Nina ama le cose che si tengono fuori, Viola ama le cose che si portano dentro. 

Una sera, una notizia inattesa mette in fermento tutto il paese: tra pochi giorni un vento  straordinario potrebbe portare via gli oggetti e far volare le persone! L’indomani Nina e Viola,  come ogni giorno, escono in cerca di qualcosa di nuovo. Al loro ritorno, Nina vede l’amica a  mani vuote, e le domanda: – Che cosa hai trovato? 

– Una vecchia filastrocca – risponde Viola, 

– Vedrai dove se la porterà il vento! – le dice l’amica, giudicando la filastrocca troppo leggera. La storia si ripete il giorno seguente. Nina torna dalla sua passeggiata con un grande pacco,  Viola di nuovo a mani vuote: – Ho trovato il profumo dei lillà! – dice felice. 

Il giorno del Grande Vento, tutti gli abitanti cercano riparo dietro al monte, stringendosi l’uno  all’altro. Quando Viola torna a casa, tutti i suoi oggetti sono volati via. Adesso è lei ad avere le  mani vuote. Va dall’amica, le chiede dove sia finita la sua filastrocca antica e le altre cose leggere  che si portano dentro. – Sono dentro, – risponde Viola, – ecco perché non se le è portate via il  vento. 

Erano così belle, le cose che Viola si portava dentro! Da quel giorno le due amiche uscirono  sempre insieme in cerca di cose leggere, le uniche che il vento non potrà mai portare via. 

[Ispirato alla poesia Alla fine scoprirai, M. Quintana]